Rappresentazione come strumento di potere
Chi controlla la narrazione delle storie controlla come vengono rappresentati o non rappresentati i membri della società che fanno parte di realtà marginalizzate. Persone che non si conformano ai ruoli che la cultura impone o tollera vengono spesso rappresentate in maniera negativa, facendo uso di stereotipi non necessariamente fondati. Farlo permette di isolare queste persone e queste realtà in una condizione di qualcosa di differente, come “non persone”. Una volta che queste persone sono declassate a qualcosa di diverso dal “noi” collettivo, diventano facilmente capri espiatori, usati spesso a scopo di propaganda politica o peggio. Un esempio lampante e drammatico che chiunque dovrebbe conoscere è quello delle comunità ebraiche nella Germania nazista.
Queer coding
Le persone LGBT+, per fare un altro esempio, nella nostra società sono state a lungo soggette a un tipo di rappresentazione densa di stereotipi che le incasellava in un contesto relegato ai margini della società e talvolta le tollerava purché fossero invisibili o purché ricalcassero gli stereotipi con cui comunemente venivano identificate e diventassero macchiette o strumenti utili per l’intrattenimento. I tratti che si identificano con aspetti legati all’essere queer, quindi non conformi sotto il profilo dell’identità sessuale e di genere, nel corso del tempo sono stati usati come strumento di narrazione identificativo del malvagio.
Questo modo di narrare un personaggio secondo stereotipi che richiamino al suo essere queer si chiama queer coding. Per un approfondimento su questo argomento rimando a questo articolo di Dimensione Fumetto. La narrazione non ci dice esplicitamente se i personaggi sono gay o, più genericamente, queer; tuttavia gli stereotipi che usa ci lasciano intendere che potrebbero esserlo.
Due esempi iconici e largamente conosciuti sono Scar, de Il re leone e Ursula de La sirenetta.
Scar è teatrale, effeminato, passivo-aggressivo e molto pieno di sé.
Ursula ha un trucco pesante, un aspetto appariscente, è altezzosa e teatrale. Il personaggio è stato ispirato da Divine, una celebre e iconica drag queen.
Il potere di queste rappresentazioni è quello di rinforzare, nella mente di chi guarda, l’idea che tutto quello che non è sessualmente conforme può anche essere affascinante, intrigante e brillante, ma comunque, in ogni caso sbagliato, pericoloso e moralmente inaccettabile. È destinato a distruggersi in qualche modo. Lo è a prescindere da quali che fossero le eventuali intenzioni della sceneggiatura.
Le storie e le narrazioni diventano un veicolo per trasmettere cosa è giusto e cosa è sbagliato
Le storie che includono questa narrazione diventano così un veicolo potente per trasmettere cos’è giusto e cos’è sbagliato. Rinforzano uno stereotipo sociale che viene ritenuto giusto e corretto.
Sia chiaro: non intendo dire che sia sbagliato in senso assoluto usare il queer coding per rappresentare personaggi malvagi. Diventa un problema quando i personaggi con caratteristiche queer sono sempre nella posizione di essere personaggi malvagi o non influenti. Quando, in altre parole, non hanno anche una equa rappresentazione positiva che faccia da contraltare.
Chi può influenzare la narrazione, quindi, influenza il punto di vista della società in cui vive. Le realtà marginalizzate per costruire una propria identità sono spesso dovute ricorrere alla creazione di sottoculture, dove la loro voce fosse quella della narrazione, dove potessero rappresentare i loro eroi, le loro eroine e le loro storie a modo proprio.
Le narrazioni di una cultura veicolano i suoi valori
Un esempio di questo processo è quello che ha portato alla nascita della ball culture, rappresentata nella serie Netflix Pose. In quel contesto, i punti di forza e i valori delle figure considerate eroiche e importanti non coincidono con quelli della società eteronormativa. Si dà valore alla famiglia elettiva, alla figura della Madre come quella persona che si prende cura di una casa dove diversi ragazzi e ragazze trovano rifugio dalla strada e dà loro uno scopo trasmettendo la cultura delle ballroom. Parla di trovare un senso di appartenenza e identità al di fuori della società che ti rifiuta.
I mostri non si riflettono negli specchi
Se un gruppo sociale marginalizzato non è rappresentato in nessun modo all’interno di una cultura, cioè se non ci sono storie o narrazioni che parlano dei suoi componenti in maniera positiva, allora quel gruppo sociale in quella cultura non esiste. È in questo modo che si creano figure nemiche o si cancellano le persone che si vogliono isolare. È in questo modo che una persona smette di essere una persona e diventa un intruso, uno sconosciuto o un mostro.
Pensate a cosa può significare crescere con la pelle scura in una nazione in cui tutte le posizioni di potere, le pubblicità e i media sono a predominanza bianca. Oppure nascere omosessuale in un luogo in cui tutto quello che ha a che fare con quello che provi e non puoi controllare viene rappresentato e condannato come sbagliato, malato e pericoloso. O peggio: come colpa tua. Questo è sempre parte del potere della narrazione e delle storie quando parlano di persone che non possono parlare per sé e che non hanno figure eroiche o positive che possano essere per loro una guida.
Conoscete i vampiri, vero? Sapete che i vampiri non si riflettono in uno specchio? C’è questa idea che i mostri non si riflettono nello specchio. E quello che ho sempre pensato non è che i mostri non hanno riflessi nello specchio. È che se vuoi trasformare un essere umano in un mostro, negagli, a livello culturale, ogni riflesso di sé. E crescendo, io mi sono sentito un mostro in un certo modo. Non mi vedevo riflesso da nessuna parte.
Junot Díaz
Trovare uno specchio in cui riflettersi
Un esempio molto calzante sulla mancanza di specchi in cui riflettersi l’ho avuto da un amico che stimo molto. Confrontandomi con lui su questi temi, mi ha raccontato di come, da molto giovane, fosse ben consapevole della sua omosessualità, ma nonostante questo non gli era mai balenata per la mente l’idea che si sarebbe potuto fidanzare con un ragazzo. Era convinto che avrebbe voluto sposare una ragazza, perché quello si faceva. L’idea stessa dell’intimità tenera coi ragazzi lo disgustava. Tutte le storie che vedeva e le narrazioni che lo circondavano, gli dicevano che la cosa giusta da fare era quella di sposare una ragazza, quindi se ne era convinto.
Le cose per lui sono iniziate a cambiare quando è entrato in contatto con film a tema, con la lettura e l’ascolto di testimonianze, vedendo coppie di ragazzi. Pian piano, qualcosa che gli sembrava eterno e immodificabile, in lui è cambiato.
Non basta inserire un personaggio queer
Questo è quello che spaventa chi non vuole che lo status quo nel quale ha un privilegio venga sconvolto. Molto spesso si parla di privilegio, infatti, e non di condizione naturale.
Nel gioco di ruolo è importante rappresentare identità marginalizzate perché altrimenti non esistono nell’immaginario collettivo di chi gioca. Se non esistono, chi gioca non sa che può giocare quelle identità, né ha riferimenti concreti per sapere come metterle in gioco, nel caso lo desiderasse. In maniera analoga a quanto detto prima, non è necessario che le rappresentazioni siano solo positive; il problema nasce quando sono solo negative e si appoggiano a stereotipi problematici, senza altre rappresentazioni positive a controbilanciare, tenendo conto del contesto.
È altrettanto importante permettere a chi fa parte di una identità marginalizzata di poter rappresentare le proprie figure eroiche e personaggi rappresentativi. Perché non basta inserire un personaggio identificato, ad esempio, come gay per dare una rappresentazione di un personaggio gay. La presenza dovrebbe anche veicolare in qualche modo il senso dell’esperienza di quell’identità.
È davvero la mancanza di fantasia il problema?
Affermare che tanto chi vuole giocare un personaggio che si riferisce a un’identità marginalizzata, come ad esempio una persona transgender, può farlo senza che ci siano personaggi canonici transgender nei manuali o nelle illustrazioni perché basta la fantasia è fuorviante. Ovviamente è vero che si può fare, ma il punto non è quello. Il punto è includere una narrazione, a partire dai manuali, che apra una possibilità concreta.
Direttamente collegato al problema della rappresentazione c’è anche quello dell’inclusività ai tavoli da gioco e nei gruppi sociali in cui si manifesta la cultura del gioco. Quello dell’inclusione, tuttavia, non è oggetto di questo articolo. La cito perché una rappresentazione varia e positiva può influire sulla cultura del gioco, nel lungo periodo. Questo, ovviamente, va a scontrarsi con equilibri e status quo stabiliti dalla cultura e dalla narrazione attuali. Ogni volta che una narrazione e una storia toccano uno status quo, mettono in discussione gli equilibri su cui si fonda, generando resistenza nel gruppo maggioritario che ci si riconosce, perché si sente, in genere, colpito in un proprio privilegio, che ne sia consapevole o meno.
Articolo ben scritto e ben argomentato, come sempre. Complimenti! Produci altri contenuti così. 😉
Grazie! 🙂